Una riflessione che ho scritto verso mezzanotte, appena tornato a casa dopo aver visto il film: avviso i lettori che ci sono alcune anticipazioni sul finale, le ho scritte in corsivo e in rosso in modo da evidenziarle in caso qualcuno non avesse ancora visto la pellicola, che consiglio vivamente!
Può un film d'azione essere indipendente? Avere una produzione indipendente, una distribuzione indipendente, avere uno "stile" indipendente, insomma fregiarsi dell'etichetta di "film d’autore"? Drive assolutamente sì, e aver vinto la Palma d’Oro per la regia a Cannes, lo conferma nel migliore dei modi. La storia è basilare, semplice e di certo già vista: protagonista un malvagio dal cuore d’oro, un cattivo con una sua etica morale, un uomo che infrange la legge per vivere, ma che desidera ardentemente una vita normale, con un amore da trovare magari nella vicina della porta accanto. Naturalmente finirà nei guai per aiutare la sua bella e scorrerà del sangue. Fin qui nulla di nuovo. Ma sono i dettagli a fare la differenza. Primo fra tutti il fantastico Ryan Gosling, attore di nuova generazione, che personalmente ho apprezzato moltissimo in “The Believer”, la sua prima prova da protagonista; poi si è invischiato in produzioni non troppo felici ed è riemerso di recente in “Half Nelson”, “Lars e una ragazza tutta sua” e “Blue Valentine” che non ho visto ma recupererò presto, e in “Il caso Thomas Crowne” dove duetta magnificamente con Sir Anthony Hopkins. La faccia di Gosling è perfetta nell’incarnare questo scomodo figuro che si aggira con ostinato silenzio per le strade di Los Angeles, una faccia pulita da ragazzo qualunque e per bene, che sfoggia un sorriso tirato senza far intravedere i denti, per non esporsi troppo alla vita che lo circonda; ma anche un viso determinato e colmo di insaziabile spietatezza, quando la vendetta e l’istinto di protezione s'impadroniscono del suo animo, sfociante in un sadismo che lascia il “ragazzo” - così viene chiamato per tutto il film - sudato e spossato al termine del suo sporco lavoro con le malcapitate vittime. In effetti non serve dare un nome al protagonista, “ragazzo” va più che bene, poiché egli incarna un ideale, quella apparentemente innocente voglia di proteggere un caro a costo di commettere malvagità, quella giustizia privata che ognuno di noi brama nel profondo del cuore, quell’impossibilità di vivere con un lavoro semplice e onesto. Lo sguardo di Gosling è sempre misurato, ma in ogni momento riesce, pur parlando pochissimo, a trasmettere le emozioni del suo personaggio, e quando in un punto del film il “ragazzo” si mette una maschera per compiere uno dei suoi atti di vendetta, non sembra affatto stonare sulla sua figura, forse perché per tutta la storia egli ne ha portata una. Forse potrebbe togliersi quella maschera solo aprendo il suo cuore alla vicina di casa che sogna di amare e che invece può solo difendere dal male che la circonda. E dunque il male va mostrato. La violenza deve essere presente e il regista Nicolas Winding Refn sa bene che anche le immagini più crude sono necessarie. Perché è il mondo ad essere crudele, non il “ragazzo”. Gli eventi costringono il protagonista alla violenza, sadica e impietosa, il regista non può esimersi dal mostrarla. Ma Refn si ferma sempre un passo prima di cadere nel baratro delle immagini alla "Hostel", conscio che deve portare l’osservatore a un punto di repulsione tale, da accrescere l’odio per i veri cattivi e la simpatia per il nostro (anti)eroe. Perché la violenza del “ragazzo” è sempre percepita dallo spettatore come vissuta anche da egli stesso, come "piovuta" addosso al protagonista, non gratuita, né voluta, ma sempre necessaria e per questo ancora più odiosa, perché sfigura un animo capace di atti dolci e buoni, come si deduce dalla prima parte del film. Le musiche che accompagnano la narrazione sono un altro tocco di classe, sempre delicate, un sottofondo elettrico di una Los Angeles quasi diafana, spesso ripresa di notte con le sue miriadi di strade, incroci e semafori; particolarmente apprezzata, per quanto mi riguarda, la canzone di chiusura. Un'ultima nota per la regia: il premio vinto a Cannes parla da solo, ma da sottolineare come questo giovane regista danese, autore spesso anche delle sceneggiature dei suoi film, abbia un tocco leggero, mai troppo invasivo, muovendo la cinepresa con sguardo distaccato senza quasi voler disturbare l’andamento della storia; la scena poetica dell’ascensore diventa dunque a mio avviso un capolavoro d’intensità emotiva e di accelerazione di violenza, in bilico tra innocenza e mostruosità. E con la sguardo distaccato già menzionato, il regista stacca le riprese con il “ragazzo” che guida, senza dare giudizi su tutta la faccenda, senza avere il coraggio di mostrarci come davvero va a finire; perché anche Refn si affeziona al protagonista e non se la sente di mettere la parola “fine” alla sua esistenza. Quella ferita al ventre è presumibilmente mortale, ma nessuno spettatore vuole vedere Gosling esalare l’ultimo respiro, ognuno vuole invece poter immaginare in un angolo della mente che vivrà felice con la sua amata, o forse, più verosimilmente, vuole ricordarselo come nell’ultimo fotogramma del film: alla guida della sua auto. Perché è quello ciò che sa fare meglio: guidare.
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